Andrea "Gothic" Consolini

Ho tentato a lungo di scrivere una presentazione che mi soddisfacesse; dare un volto, poche righe, a quella che io chiamo narcisisticamente "arte", senza mai riuscirvi, mai riuscendo a rispecchiare le mie aspettative. Finché ho concluso che non potevo. Poiché per farlo dovrei parlare e parlare, senza mai giungere ad una conclusione che neppure io conosco.
Come cercare di riempire con l’acqua dell’oceano una buca sulla spiaggia. Preferisco siano i miei stessi racconti a parlare per me e di me. Chiunque mi volesse contattare può scrivermi a quest’indirizzo:
gothikx@excite.it. Forse c’è un’unica cosa che vorrei premettere: senza un maestro non avrei mai iniziato a comporre prosa, questa persona si chiamava Howard Phillips Lovecraft. Fu lui ad insegnarmi a scrivere, dalle pagine dei suoi libri imparai cos’è la paura, nella condivisione dello stesso ideale d’orrore. Come potrei mai dimenticare questo passo, tratto da "Il richiamo di Cthulhu": "Mi trovavo sull’orlo di orrori cosmici che l’uomo non può assolutamente sopportare, ma se era così si trattava di orrori della mente e null’altro."... E’ tutto, buona lettura.

 

"L'abitatore del buio"

Sapevo che mi avrebbe trovato prima o poi; per questo non ho cercato di sfuggirgli. Credevo fosse anche sadico, avendo aspettato una settimana, tuttavia non pensavo si aspettasse una simile reazione. Attendendolo mi informai, e riuscii a trovare il modo di portarlo con me agli Inferi, o riportarlo se è da lì che viene. Ma mai sarei giunto a pensare quel che successe.
Nonostante tutto ho ancora abbastanza forza per scrivere queste righe, per avvertire il mondo del pericolo che corre. Orrori innominabili sono nascosti nelle viscere della Terra. Io ho scoperto uno di questi. E’ per questo che prego chi troverà questo manoscritto affinché si impegni a far chiudere definitivamente, o ancor meglio distruggere, la chiesa abbandonata di San Cristoforo. Lì dentro, nell’abnorme cripta sotto l’altare, è contenuto il Trapezoedro Lucente, crocevia tra la nostra e altre insondabili realtà per fortuna sconosciute.
Ricordo ancora benissimo quel dannato sabato mattina. Anziché andare a scuola mi ero visto con Anna, la mia ragazza, e l’avevo convinta a visitare quella chiesa abbandonata sul Naviglio. Perché non ho seguito il suo consiglio di andarcene? E invece la mia sete del macabro e del dimenticato la convinse. Avevo portato una torcia elettrica, così il traversamento della navata centrale, invasa da sassi e assi marce, non fu difficoltoso, come l’esplorazione del coro, dietro l’altare. Fu proprio lì che trovai la botola che conduce alla cripta. Gli intarsi nel metallo sembravano vagamente minacciosi, ma non me ne curai; solo ora capisco che erano un avvertimento.
Non badai all’aria fetida mentre scendevo gli scalini che consunti portavano in un pozzo di tenebre, la luce della torcia illuminava appena le pareti strette e rovinate, coperte talvolta da icore giallastro. La discesa durava ormai da qualche minuto, accompagnato solo dal rumore attutito delle scarpe sui gradini; il mio cuore, dimentico ormai d’Anna che mi seguiva in silenzio, batteva a ritmi sconsiderati, ma anche quello fu nulla in confronto all’eccitazione che mi prese una volta arrivato.
L’antro che mi si apriva davanti sembrava di un’immensità soffocante, ma probabilmente era un effetto dovuto alle ombre che lo invadevano. Con passi frenetici cominciai ad esplorare la parete alla mia destra. Scoprii così che si trattava di una camera circolare neppure troppo grande per come mi era apparsa all’inizio; ma ancora il mio raziocinio era offuscato dalla brama di conoscere quello che non dovrebbe essere conosciuto, di sapere quello che per fortuna era perso. Pazzo. La parola migliore per descrivermi allora è questa, mentre con mano tremante accarezzavo i delicati affreschi eseguiti da mano sicuramente umana, ma la cui capacità percettiva andava ben al di là della norma. Ebbi infatti la tremenda percezione che i nostri cinque superficiali sensi non bastassero, ma ne occorressero altri per cogliere nuovi e più raccapriccianti significati. Rappresentavano una stirpe d’alieni, o dei, dalla testa di piovra durante situazioni di vita in megalopoli spropositate; le proporzioni infatti, come le geometrie, erano totalmente sbagliate. Ma la mia follia arrivò al culmine quando vidi in una nicchia una raffigurazione, in metallo probabilmente, dell’antichissimo e malvagio Cthulhu, il dio dal corpo obeso e scaglioso, dalle enormi ali da drago e dalla testa da polipo. Rimasi incantato da quelle gemme al posto degli occhi. La tenue luminescenza che emanavano sconvolse i miei sensi, facendomi perdere coscienza per un secondo. Barcollai, scosso da un fremito tanto profondo nel mio animo quante sono le ere da cui proviene quell’effige, e cadendo all’indietro persi la torcia, che andò ad illuminare un piccolo altare posto al centro della sala.
Quando mi riebbi non badai alle urla di paura e preoccupazione di Anna, ma mi diressi verso l’altarino circondato da cinque piccoli sedili. Alla luce della pila, che avevo ripreso, notai che anche il blocco di pietra era adornato da finissimi bassorilievi, che però preferisco non descrivere. Il lato superiore era sporco di una sostanza marroncina ormai seccata che non mi fece rabbrividire, anche se implicava orrendi riti sacrificali, ma la mia attenzione venne attratta da un cofanetto arrugginito caduto a terra chissà quando, e mai più raccolto. Impiegai molto poco a forzare la scatoletta prima di illuminarne l’interno.
Dei degli Inferi e del Cielo, mai l’avessi fatto! E la colpa delle mie azioni ricadrà tutta su di me. Sì, perché l’oggetto che stava all’interno del cofanetto era il Trapezoedro Lucente.
Probabilmente fu la paura, una paura radicata nel subconscio di ognuno da millenni, a darmi la forza di scappare, di salire le scale e chiudere la botola per poi uscire, sempre correndo, dalla chiesa.
Solo allora, in ginocchio per terra, fradicio di sudore freddo, mi ricordai di Anna. Le sue grida non coprivano le mie quando iniziai a correre, ma si fecero molto più acute dopo che la spinsi per avere libero il passaggio della ripida scalinata. Ringrazio la follia momentanea che mi colse, perché forse mi sarei fermato udendo le urla di Anna mentre il suo corpo, troppo grasso ed ingombrante per darle comunque una minima possibilità di fuggire, veniva voracemente dilaniato e divorato. Neppure sentii il fetore che poi si impresse sui miei vestiti o l’innaturale scalpiccio quasi liquido che indicava i suoi spostamenti.
Ho ancora molte remore a descrivere esattamente quello che vidi, e davvero non lo farei, se non fosse essenziale per capire il pericolo che l’umanità corre. Ma ecco cosa successe.
Quando posai la luce della torcia sul Trapezoedro questo iniziò ad aumentare la sua luminosità violacea, dovuta sicuramente a leggi fisiche e chimiche di altri mondi, fino ad illuminare buona parte dell’antro. Gradualmente un puntino al centro del bagliore si ingrandiva. Lo fissai curioso di scoprire chissà cosa, ma la curiosità si tramutò in terrore quando vidi quell’essere che si agitava freneticamente, così somigliante ad una macchia d’inchiostro impazzita. Apriva e chiudeva le fauci con ira, quasi inveendo o ridendo, e mi fissava con quegli occhi di brace mentre anch’io lo fissavo. Fu allora, quando i nostri occhi si incrociarono e tutto accadde, che capii cos’avevo fatto. Avevo liberato una creatura aberrante nel nostro mondo, e l’unica cosa che allora mi poteva salvare era la fuga. Ad Anna invece non riuscì, probabilmente anche per colpa mia, ma non riesco tuttora a piangere per la sua morte.
Il caso volle che nessuno mi notò quando, in stato semiconfusionale, uscii dalla chiesa, evitando così inopportune domande. Ma il ricordo di ciò che avevo visto continuò a perseguitarmi.
Ciondolai per Milano senza meta, poi tornai a casa, isolandomi nella mia camera per evitare i miei genitori. Non mangiai neppure e cercai di rassicurarli quando mi domandarono preoccupati cosa mi aveva preso.
Seduto su una vecchia sedia, nell’ombra sempre più scura della notte, pensavo a cosa fare.
Sapevo bene di essere già perduto, che l’essere informe che avevo evocato mi avrebbe scovato e ucciso, ma non mi disperai come avevo fatto nel pomeriggio, pensavo ad un contrattacco, o almeno ad una maniera per fermarlo. Telefonai anche ad un certo "indagatore dell’insolito", che risiede a Londra, ma potei solo lasciare un messaggio sulla segreteria telefonica.
Riposta al suo posto la cornetta, mi ricordai di un ragazzo che avevo conosciuto anni fa a scuola e che poi si era trasferito. Secondo le voci che circolavano tra le aule era un vero appassionato di magia e occultismo, nonché topo di biblioteca. Avevo scambiato qualche parola con lui, ma poi lasciai perdere, convinto fosse troppo stravagante. Capii che era la mia ultima speranza. Mi gettai sul telefono, incurante dell’ora, e non mi sorpresi affatto di trovarlo ancora ben sveglio a studiare su antichi tomi. Non appena mi riconobbe gli accennai confuso a cosa mi era successo. Il tono della sua voce mutò improvvisamente, da pacato e distaccato divenne brusco ed agitato. Volle venire subito a prendermi in macchina e mi disse di avvertire i miei genitori, perché la ricerca che stavamo per intraprendere sarebbe durata più giorni. I miei non obiettarono quando dissi loro che quello che stavo per fare era la cosa più importante della mia vita; i loro volti tuttavia tradivano una grande angoscia, che notai quando salii sulla vecchia Uno e partii.
Durante il viaggio verso Torino, dove abitava, spiegai ancora una volta a Filippo cosa avevo visto e sentito nella cripta maledetta, rispondendo di volta in volta alle domande che mi poneva. Dal suo viso non traspariva alcuna emozione, ma la guida nervosa e l’alta velocità che teneva rivelavano una grande tensione. D’altronde neppure io riuscivo a sopirmi, come invece sempre mi accadeva durante i viaggi, per la paura che mi attanagliava.
Il sole non era ancora sorto quando giungemmo a casa sua. Era una soffitta colma di libri e fogli disposti in maniera disordinata sui vecchi scaffali, sull’unico tavolo e anche sul pavimento. Alla luce delle candele - Filippo affermava che alla loro luce pensava meglio - il mio rosso compagno cercava freneticamente libri e cartigli che ci potessero essere d’aiuto.
Una volta terminata la ricerca ci dirigemmo verso una strana biblioteca aperta solo di notte, nel centro della città; Filippo era convinto che lì avremmo sicuramente trovato quel che ci occorreva. In effetti i titoli dei libri che riuscii a scorgere trattavano dei più disparati temi macabri e fantastici, dalla narrativa orrorifica a dizionari di lingue arcaiche e sconosciute. Mi stupii parecchio comunque, quando il mio amico scambiò qualche parola col bibliotecario, in una lingua che non comprendevo. Dopo qualche resistenza il vecchio zoppo dallo sguardo perso nel nulla acconsentì alle richieste e ci condusse ad una porticina in fondo alla tetra biblioteca.
Accomiatandosi da noi ci lasciò con un augurio che mi fece rabbrividire, ed ebbi paura di quello che avremmo potuto trovare. I tomi impilati sugli scaffali dell’angusto e polveroso stanzino ispiravano una sensazione di arcano terrore, ma era nulla in confronto al ricordo di ciò che avevo vissuto.
Non voglio nemmeno accennare a ciò che scoprii tra quelle mura ingrigite, basti pensare che sarei impazzito se non avessi già carpito scorci di quelle rivelazioni dalle pagine che uno scrittore americano, vissuto tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, aveva lasciato all’umanità intera. Il mio senso del tempo si perse totalmente mentre Filippo prendeva appunti e ricopiava formule, ancora una volta alla macabra luce delle candele. In un momento di riposo mi chiesi di quali segreti proibiti il mio amico lentigginoso e occhialuto era a conoscenza, ma per preservare quel poco che rimaneva della mia sanità mentale, evitai di fare domande.
Finalmente concluso il nostro lavoro lì dentro, uscimmo, e ringraziai il dio in cui ormai non credo più di non respirare ancora l’aria fetida e viziata del bugigattolo, e di non dover più incontrare il vecchio bibliotecario, dallo sguardo perso in chissà quali insondabili dimensioni. Scoprii dunque che era la mattina di martedì. Ci affrettammo a reperire i materiali che ci occorrevano e poi tornammo in tutta fretta a Milano
In macchina riflettei su come il mio corpo rispose al digiuno e alla mancanza di sonno a cui mi ero costretto in quei giorni. Realizzai che anche il mio fisico doveva essere rimasto sconvolto, ma ebbi il sospetto che la sola tensione nervosa non potesse arrivare a cancellare totalmente i bisogni fisiologici.
Arrivati finalmente a Milano ci sistemammo in una vecchia palazzina che doveva essere demolita. Dall’ultimo piano si poteva dominare lo spazio aereo al di sopra della chiesa blasfema, ed è lì, in una stanza grigia e spoglia, che Filippo iniziò la trafila di riti inimmaginabili che ci avrebbe permesso di distruggere il mostro. Ammetto che non compresi il perché di tutti quei rituali e simboli, che Filippo sistemava con pazienza e precisione, ma in fondo mi bastava sapere che mi avrebbero liberato dall’incubo che avevo risvegliato.
La prima cosa che il mio pallido amico si premurò di fare fu un sacrificio; una povera bestia, che non riconobbi perché sfigurata, venne immolata al centro della stanza. Col sangue dell’animale Filippo disegnò un simbolo ed una scritta. Poi, con una polvere violacea, fece una spirale intorno all’emblema di sangue. Intuii che i diagrammi che costituivano la costruzione erano le parole di una preghiera blasfema e mi rallegrai per quanto mi fosse concesso di non poterla decifrare.
Filippo eseguì tutti i preparativi in un silenzio sepolcrale, comprese le figure che dipinse sulla parete con una vernice viola anch’essa. Pure io non osai fiatare, per non distogliere Filippo dalla concentrazione che capivo necessaria. Chissà quali tremende implicazioni avrebbe comportato un errore in questa fase. Io intanto cercavo di imparare a memoria una formula, a quanto pare essa era l’ultimo tassello del rituale.
Quando finalmente ebbe terminato, Filippo mi disse che la creatura avrebbe cercato di uccidere me per primo, in quanto rappresentavo come un portale che doveva ancora oltrepassare, dopodiché sarebbe stata libera di imperversare nel mondo. Mi disse oltretutto che quasi sicuramente sarebbe uscito allo scoperto di notte, ma neppure lui ne sapeva il motivo. Volle essere ben sicuro che non avessi recitato ad alta voce la mia formula, poiché un’evocazione nel momento sbagliato avrebbe vanificato tutto. Mi spiegò anche la pronuncia di alcune parole, tuttavia fu una pratica piuttosto inutile, siccome ero già in grado di intuire il significato di alcune di esse.
L’attesa fu snervante. I preparativi finirono finalmente la sera di mercoledì, quando installammo decine e decine, probabilmente più di un centinaio, di candele dalla cera blu. Proprio le candele, nella dolce tenebra notturna, emanavano uno spettrale bagliore azzurro; il soffitto divenne invisibile a causa del fumo, che si contorceva in spirali sempre più caotiche di paura ed orrore. Ma quella notte, trascorsa nel centro della spirale, osservando dall’ampia finestra il cielo sovrastante la chiesa, non portò nulla, se non un’ansia che si placò un poco al sorgere del sole. Ormai non provavo più l’esigenza di dormire, anche la fame stentava a farsi sentire, ma mi sforzai di mangiare qualcosa coi pochi soldi che avevo in tasca. Telefonai ai miei genitori ma fu solo un futile tentativo di rassicurarli dopo la mia brusca ed improvvisa partenza, perché il tono della mia voce, per quanto cercassi di modularla, tradiva la precarietà della mia psiche.
Non ho idea di quanto tempo camminai e restai seduto, guardando le persone che mi passavano vicine, ed invidiandoli per la loro ignoranza di ciò che potrebbe distruggerli e che era così vicino.
Tornai nella stanza che ospitava me e Filippo poco prima di sera. Non scambiammo una sola parola per tutto il tempo. Avevamo già detto tutto quel che occorreva dire, e per il resto i nostri sguardi e i nostri occhi erano molto più eloquenti.
Anche quella notte, come la precedente e quella di venerdì, non accadde nulla, Filippo continuava ad interrogarsi sul motivo per il quale il mostro non aveva ancora cercato di uccidermi, senza riuscire a trovare risposta. Ma tutto si chiarì la notte di sabato.
Stavo seduto, con le gambe incrociate, al centro della magica spirale che doveva essere rinnovata ogni giorno. Osservavo dalla finestra la luce artificiale dei lampioni, filtrata attraverso la fitta pioggia che cadeva ormai dalla mattina. Nella luce intensissima e di durata così breve dei lampi, mi sembrava di vedere scorci di quelle ultime giornate da uomo che avevo vissuto.
Anche il sabato era passato come gli altri giorni, a parte la pioggia che batteva violenta sulla mia faccia e sul mio corpo, inzuppando capelli e vestiti. Non si vedeva nessuno camminare per le strade, solo qualche macchina sfidava la triste solitudine di quel deserto sovrannaturale.
Quando tornai all’appartamento, accompagnato dallo squassante fragore dei tuoni tardivi, era ancora primo pomeriggio.
La notte sembrava giunta parecchio tempo prima del normale, essendo il cielo totalmente coperto da nubi plumbee, ma Filippo non aveva ancora acceso le candele, volendo rispettare il rituale ad ogni costo. Riuscivo comunque a muovermi nel regno delle ombre con freddo controllo, riuscendo a non ascoltare le grida di timore ancestrale che salivano dal mio subconscio.
La notte vera e propria non tardò ad arrivare. Il tenue bagliore azzurro delle candele creava un netto contrasto con la luce dei lampi, che sembravano dirompere nella stanza senza ombre. Tutto sembrava procedesse come le notti precedenti, nel silenzio interrotto solo dai respiri miei e di Filippo, dalla pioggia incessante e dal rombo dei numerosissimi tuoni. Dovevo comprendere che questo temporale non era naturale, e più di me Filippo, anche se non potevamo conoscere appieno l’entità ed i poteri di quello che stavamo per affrontare.
Non era ancora scoccata la mezzanotte quando, in un istante dalla durata irreale, tutte le luci di Milano si spensero. Fu allora che, osservando la città illuminata solo dai fulmini impetuosi, iniziai a comprendere la verità.
Il mio cuore pulsava nella testa a ritmi vertiginosi, il sudore che mi infradiciava le vesti era freddo, mentre scrutavo il cielo sopra la chiesa di San Cristoforo non più illuminata dai tanti lampioni che l’accerchiavano. Potei solo emettere un breve suono gutturale vedendo la piccola macchia informe che s’alzava dalla chiesa maledetta.
I nervi erano talmente tesi da impedirmi persino di muovermi, curiosamente come contropartita i miei sensi divennero talmente acuti da poter udire il battito del cuore di Filippo. E’ quasi assurdo quanto mi riesca difficile parlare di quei secondi, soprattutto perché la mia situazione attuale è, in paragone, addirittura peggiore, ma lo farò ugualmente per il bene dell’umanità.
"E’ giunto il momento", sussurrò il mio compagno quasi estasiato da quello che vedeva. Io non potevo certo condividere le sue emozioni, mentre il mostro avanzava velocemente con improvvisi scatti laterali. Ripassavo la formula magica nella mente. Non so come trovai un coraggio che non credevo di possedere, intanto che l’essere s’avvicinava sempre più, e la mia determinazione cresceva.
Ma tutto crollò l’istante in cui i nostri occhi si incrociarono, ancora. Un flusso di visioni orrende di altri mondi confluì nella mia mente, e allora capii che non potevo uccidere il mostro finché io fossi rimasto in vita. Perché quando i miei occhi si fissarono sui suoi nella cripta, una parte della creatura maledetta penetrò in me, nella mia mente e corrompendo il mio animo.
Compresi quindi che se volevo eliminarlo definitivamente dovevo morire anch’io con esso. Aveva paura della luce, per questo non mi aveva ancora cercato, lo lessi nella sua mente, ma era intuibile osservando i suoi movimenti improvvisi, così tesi ad evitare i fulmini che impazzavano tutt’intorno come un balletto diretto dal caos. Proprio i lampi lo rendevano ancora più rabbioso. Voleva solo unirsi a me, unirsi e poi uccidermi da dentro, per poter alleviare questo suo terrore. Non gli importava neppure della trappola che io e Filippo gli avevamo preparato, preda della sua brama insaziabile. Ma il suo scopo non era solo di fondersi a me. Seguace spietato di Nyarlathotep, il Caos strisciante, esso voleva dare inizio ad un’epopea di orrore ultraterreno usando il mio corpo, pure così debole al confronto di tanta abissale superiorità. Seppi tutto questo in un istante troppo esteso per poterlo sopportare ancora a lungo.
Mi alzai sulle gambe non ancora ben ferme, i capelli agitati da una spirale di vento gelido d’orrore. La sfida che gli porgevo andava ben al di là dei propositi di liberarmi di questa cosa e di sopravvivere: era una scommessa con me stesso. In quel momento di passione e di dolore, uniti nello spirito e presto nella carne, mi scagliai contro di lui.
Il rumore dei vetri infranti si perse nel fragore dei tuoni, quando il mostro penetrò nella stanza diretto verso di me, ed io in corsa verso di lui. La formula che stavo pronunciando sortì intanto i suoi primi effetti: da fioco bagliore violastro, i simboli e le parole della spirale ai miei piedi si trasformarono in fulgore di mistiche fiamme che s’attorcigliarono attorno ai nostri corpi, ormai avvinghiati in una stretta fatale. Il mostro mi raggiunse prima che terminassi il sortilegio e dessi corso alla nostra fine, cercando di fermarmi. Ma se il disordine stesso poté diventare forza concreta, lo stesso valse per la mia volontà, divenuta scudo contro la forza e l’irruenza del mio avversario. Ebbi così il tempo di terminare l’incantesimo.
Sembrava andare tutto per il meglio, la sofferenza e la vittoria si stavano spegnendo in un amalgama caotico di ombre, carne e fuoco, e non potevo prevedere quel che successe. Perché in quello che doveva essere l’ultimo istante delle nostre misere esistenze, io e il mostro, uniti ormai al punto da esser quasi una sol cosa, guardammo in un angolo della stanza, oltre il fuoco che ci divorava.
Come vorrei che Filippo fosse scappato dalla paura, ed invece la morbosa curiosità che lo rese un emarginato lo inchiodò alla sedia, facendolo godere, addirittura, di quel che vedeva. Non mi stupii né mi preoccupai per l’espressione di piacere che aveva dipinta sul volto pallido, ma fu un’altra la cosa che mi impressionò al punto da terrorizzarmi, io che avevo visto la triste morte in faccia. Ed è quello il motivo per cui sono ancora qua a scrivere.
Adesso è notte, ma dove sono rinchiuso è sempre buio. Qui, nella mente di Filippo, oscure immagini di memorie ancestrali non più sepolte nel subconscio si susseguono e rincorrono, si alternano e svaniscono. Quali neri orrori sono nascosti nella mente di questo ragazzo. Egli sa molto più di quello che da ad intendere, persino io l’avevo sottovalutato.
La situazione in cui mi trovo è, per certi versi, ironica. Da vittima sono diventato predatore, attraverso quel processo che prima mi legò al mostro, e che si attiva all’incrociarsi degli sguardi. In quel maledetto istante io e il mostro guardammo Filippo, e lui noi, e da quel momento siamo penetrati nella sua mente, piantati come semi che si cibano delle sue emozioni.
Anche se mi sto rafforzando, riesco a prendere il controllo del mio ospite solo di notte, quando la coscienza è più debole. Ma il mostro sta crescendo più velocemente di me, ed io devo fare in fretta per poter realizzare i miei scopi. Nonostante ora stia predominando la creatura mi impedisce di distruggere la cripta e soprattutto il trapezoedro, però devo liberare il mondo dall’abominio che mi accompagna nell’antro in cui sono rinchiuso.
Nel cassetto del tavolo della stanza di Filippo, dove siamo tornati, c’è una vecchia pistola che non ha mai usato, perché molto meno efficace delle arti che ormai so conosce molto bene. Devo agire adesso, adesso che l’istinto di sopravvivenza è abbastanza debole. Ma non è facile perché ormai sono parte di lui. Però il mostro è qui con me e questo è l’unico modo per fermarlo, anche se solo la distruzione del trapezoedro lucente potrà porre definitiva fine alla sua eterna minaccia.
La mano trema mentre impugno l’arma, il mostro sta cercando di fermarmi, o forse sono così pazzo da aver paura. E’ come se stessi uccidendo me stesso, nonostante sappia bene d’essere già morto.
La canna della pistola sembra un abisso senza fondo, ma anche il tunnel alla cui fine troverò la pace, forse. Prego solo che qualcuno segua le mie istruzioni riguardo la cripta. Ma ormai, a un passo dalla morte, neppure questo sembra più importarmi.

 

"La polveriera"

La maggior parte degli esseri umani ritiene che gli oggetti e i luoghi non posseggano spirito proprio; altri invece credono fermamente nel contrario. Io non ho il coraggio di prendere posizione, ma lasciate che vi racconti della polveriera.
Ufficialmente il tutto avvenne la notte dell’8 dicembre ’99, mentre io ed i miei commilitoni cercavamo di riposare nelle nostre brandine; per me tuttavia, fu solo il culmine di una successione iniziata tre settimane prima.
Non era trascorsa neanche una settimana da che ero stato assegnato di servizio alla polveriera di Spilimbergo, quando trovai nell’area delle pompe dei carburanti, alle quali sono addetto come carburantista, una strana catenella. La custodii gelosamente sino all’arrivo alla caserma Forgiarini, in cui dormiamo, poco distante dalla polveriera. Seduto sulla mia branda, rivolto all’armadietto, solo allora mi permisi di osservarla più attentamente. Alla catenella erano appesi due ciondoli: uno sembrava una vecchia piastrina di riconoscimento militare, simile a quella che possedeva mio nonno, l’altro era più misterioso. Era l’effigie di una testa femminile, perfetta e forte nei lineamenti come nello sguardo; indossava una corona d’alloro ed era intagliata in un minerale che dal colore rammentava l’avorio, ma che possedeva la lucentezza e regolarità del vetro. Rimasi qualche minuto a contemplare quel volto bellissimo, come a voler sciogliere l’enigma della sua espressione, ma desistetti presto, sogghignando tra me e me. Mi addormentai domandandomi chi fosse l’uomo a cui apparteneva la robusta collana, ed intanto la tenevo ormai al collo.
Quella notte mi svegliai dolcemente, nonostante tutto intorno rimbombavano decine di esplosioni. Ero in montagna e combattevo contro il nemico tedesco. La penna nera degli alpini s'ergeva orgogliosa al di sopra del mio capo. Tutto mi risultava naturale, colpire, uccidere. Un fiume d’emozioni m’attraversava il cervello, l’adrenalina pulsava nelle vene, quando all’improvviso mi accorsi della precarietà della situazione mia e dei miei compagni. Eravamo in netta minoranza e decidemmo di ritirarci temporaneamente, per poterci riorganizzare. Non potevamo durare a lungo in quella maniera, non se ne parlava di ritirarci. Decidemmo per un assalto a sorpresa. Ci scagliammo contro il centro della carovana tedesca a fucili e pistole spianate. Il pandemonio fu indescrivibile; i nemici erano impreparati e la maggior parte cadde nel dirupo sottostante cercando di scappare. Fu l’ultima cosa che vidi giacché i miei occhi si velarono di rosso ed un dolore lancinante si pervase dalla gamba in tutto il corpo; ero stato colpito.
Mi svegliai di soprassalto nella solita branda a Tauriano; feci appena in tempo a sedermi che si accesero le luci. Un’altra giornata era appena iniziata, ma sarebbe trascorsa ancora mezz’ora prima che i miei amici si alzassero per andare alla polveriera. Io intanto riflettevo sulla straordinaria esperienza che avevo vissuto; la vividezza delle immagini, il sudore, il dolore, sembravano così reali che stentavo a credere fosse solo un sogno. Stavo ancora facendo congetture quando, riflesso nello specchio sopra il lavandino, lessi il nome inciso sulla piastrina che portavo al collo. Non trattenni un urlo ed impallidii. Con coloro che mi chiesero spiegazioni fui evasivo, mentre riprendevo a sudare copiosamente e mi allontanavo. La rivelazione gettava nuovi interrogativi sulla mia avventura notturna, domande che mi perseguitarono tutto il resto della giornata. Perché scoprii che il nome con cui mi chiamavano i compagni nel sogno era lo stesso impresso sul metallo della piastrina.
La sera di quel giorno giunse paziente, dopo le solite corse inutili e i rimproveri dei marescialli ed aiutanti per cui quelle corse compivo. Non arrivai a comprenderne il motivo, ma un indistinto filo d’inquietudine iniziò a serpeggiarmi nella mente, come se il mio inconscio stesse aspettando qualcosa, ma senza comprenderne il motivo.
La notte mi si presentò un altro problema. Non ero certo di voler tenere al collo la catenella trovata il giorno prima; alcune delle ipotesi che mi si schiudevano innanzi erano tremende. Avrei visto oltre il muro della morte se l’onirica impersonificazione fosse morta? Se invece avesse continuato a vivere, sarei riuscito a svegliarmi? E se il suo spirito si fosse impadronito del mio corpo mentre io ero nel suo? Ma i dubbi si dissiparono fissando negli occhi immobili la fine testa d’avorio che reggevo tra le dita e che indossai ancora.
Le reticenze vennero cancellate dalla fantastica e macabra curiosità che già da anni mi divorava. Sognai di sognare ancor prima di sdraiarmi sulla scomodissima branda.
La luce che fredda entrava nella stanza in cui mi trovavo era insufficiente, i contorni degli oggetti e dei quadri erano indefiniti nella penombra. L’uomo che avevo innanzi parlava in tono altisonante dovuto più ai gradi che all’effettiva importanza. Volevo solo andarmene da quell’ufficio opprimente e vuoto, tanto più che non riuscivo ad afferrare neanche la metà di quel che mi diceva. Compresi tutto il giorno dopo: niente medaglie per un’azione non approvata, meglio un lavoro alla polveriera di Spilimbergo, l’ideale per uno zoppo. Ma non pensai ad ipocrite coccarde mentre viaggiavo sul cassone dell’ACM. Il mio pensiero volava oltre le distese di campi vicino al villaggio di Tauriano, meravigliosamente toccati dai primi passi della primavera, alle montagne ancora innevate che mi stavano chiamando, sulle quali combattevo sino a poche settimane fa e che difficilmente avrei reincontrato. Ormai la guerra era finita.
Mi svegliai con la stessa visione nella testa di quei monti che riempivano gli occhi del mio ospite notturno, anche se non potevo condividerne le lacrime di nostalgia. Sperai quasi di non svegliarmi, nell’illusione di poter continuare a sognare, ma ero a naja e discutere dei nostri doveri non era previsto.
Arrivai a sera senza chiedermi il motivo del rinnovato disagio; troppo stanco per riflettere trascurai di ricercarne i motivi. Col passare dei giorni non vi feci quasi più caso; solo più tardi compresi che non m’aveva mai abbandonato dal momento che avevo trovato la collana, ma quella era la sera dell’otto dicembre.
Nemmeno i sogni mi lasciarono, e di volta in volta mi mostravano anfratti della vita nella polveriera come doveva essere più di ottant’anni or sono. Un’esistenza tranquilla e laboriosa, talmente onesta e devota da permeare la polveriera stessa. Una vita d’altri tempi fortunatamente. Non capivo il motivo per cui facevo quei sogni, li avevo semplicemente accettati come un eccellente diversivo agli incubi che mi divoravano dall’infanzia.
Eppure intuii qualcosa. Percepii come se una infima ma essenziale componente di quel mondo di sogni fosse riuscita a sopravvivere alla luce e alla veglia. Un’idea, un pensiero rimasto incuneato nel mio subconscio. Mi sorpresi nel pronunciarla sottovoce, quella parola strappata da un’altra mente: vendetta. Ma non diedi peso neanche a questo particolare, ed il disegno che si stava delineando mi si sarebbe chiarito solamente quella maledetta notte della settimana dopo. Intanto continuavo la mia vita di tutti i giorni, ignorando i segnali d’allarme che i miei sensi più inconsci mi lanciavano.
Non sapevamo cosa pensare quella sera alle 16,30, io e i miei commilitoni, mentre tornavamo alla Forgiarini. Nessuno dei marescialli e degli aiutanti aveva ancora lasciato il deposito quando ci avevano mandati via, strano conoscendo la loro attitudine al lavoro. Ma non azzardammo ipotesi, tanto più che non avremmo mai ricevuto comunque risposta. Dei loro propositi nessuno seppe mai nulla; era la sera dell’8 dicembre.
Stringevo nervosamente la collana tra le mani dal primo pomeriggio, intanto che sentivo l’inquietudine tornare e crescere d’intensità, tendendo minuto dopo minuto a divenire angoscia.
Uscii quella sera e bevvi, quasi mi ubriacai per non pensare a cosa aspettavo, perché qualcosa mi aspettavo che succedesse presto, anche se non avevo idea di cosa, e questo mi faceva sentire impotente ed inadeguato, pure solo per comprendere quanto stava accadendo. Non so quali benefici trassi dall’alcool, perché abbatté le ultime barriere del mio subconscio. Potei così abbandonare ogni residua limitazione quando cedetti al caldo abbraccio del sonno.
Tenebra. Tenebra fatta di assi marcite e terra umida. Frenesia e agitazione per rivedere la luce; finché non ritrovai la luna, piena e pallida che mi guardava con amore materno. Intorno a me giungevano intanto i miei amici, nella mente li vedevo ancora giovani e vigorosi, e per un istante fui di nuovo felice. Non potevamo parlare, ma non ce n’era bisogno, già conoscevamo il motivo per cui eravamo stati richiamati. In lontananza il vento alzava un canto che solo noi potevamo udire. Dolce e terribile, era un canto di morte. Mentre c’incamminavamo col passo più veloce che potevamo tenere verso l’origine della melodia, guardai indietro alla mia confortevole bara, chiedendomi se mai vi avrei più riposato.
Percorremmo la strada dal cimitero senza interruzioni, congiungendoci di tanto in tanto con qualcun altro dei nostri, che il passato aveva richiamato. Il paesaggio era cambiato, non camminavo tra campi e ridenti boschi, solo sterpaglie e asfalto; persino le case non infondevano più quel calore che ricordavo. Non ci preoccupammo per la gente che poteva vederci, poiché essi non vogliono vederci; le persone normali rifuggono ciò che esula la loro comprensione. Ma ogni pensiero venne cancellato all’arrivo alla polveriera, ascoltando la sua inudibile agonia.
Penetrammo facilmente attraverso le recinzioni malridotte. Mentre ci dirigevamo verso l’area attiva, disseminata di riserve colme di esplosivi, notai che un ufficio nell’altra zona, l’area inattiva, era illuminato. Avvicinandomi curioso osservai per un secondo la riunione che si stava svolgendo all’interno. Un aiutante in piedi stava argomentando agli altri marescialli, anche se parlava in maniera incomprensibile; in lui su tutti gli altri vidi il cancro che consumava lo spirito mio e quello degli altri. M’allontanai disgustato dirigendomi al compito che m’attendeva.
Proprio allora la mia volontà si ribellò. Qual’era il piano degli artificieri? Quelli nell’ufficio erano veramente i miei marescialli? Mi sembrava d’aver distinto soprattutto lo sdentato De Rita che parlava. Dio cosa volevano fare?
Lottai contro me stesso e l’altro con tutta la forza della mia volontà. Non volevo più sognare. Piombai così dal sogno in un limbo di pece silenziosa da cui mi dibattevo per riavermi dal sonno.
Non so se il mio risveglio si dovette alla mia personale riuscita o alla realtà, comunque anche gli altri trasalirono dalle brande a causa dell’enorme esplosione che si originò dalla polveriera. Ogni vetro andò in frantumi a Tauriano e nei dintorni compresa la mia caserma, mentre una nube scura come la notte si alzava lenta al cielo. Tutta la Forgiarini si alzò in preda al panico, e fu così impossibile organizzare un intervento adeguato.
Quanto a me ancora non riuscivo a discernere tra sogno e realtà, e brancolando cercavo di riafferrare la tenebra, trovandola.
Mi svegliai dallo svenimento in cui ero caduto solo quando fu tutto finito. Appresi così le prime notizie che si susseguivano di bocca in bocca. L’esplosione aveva cancellato l’intera area della polveriera, risparmiando miracolosamente la zona circostante. Da vari indizi risultò evidente che all’interno degli uffici nell’area inattiva erano presenti i sottufficiali di servizio alla polveriera, anche se i corpi ritrovati dovevano ancora essere ricomposti.
Possibile che non fosse una coincidenza?
L’idea prorompette con violenza estrema violenza nella mente ed i miei nervi già troppo scossi cedettero; dovettero trattenermi a forza mentre mi agitavo preda delle convulsioni, farneticando mozziconi di frasi sconnesse ed incomprensibili.
Quando dopo qualche giorno io e gli altri militari del deposito tornammo a Padova, dove risiede il nostro corpo originario, mi ero ormai ristabilito, nonostante dovessi ancora scontare un lungo periodo di riposo. La mia razionalità si era intanto aggrappata ad una sottilissima linea di logica, impedendomi di impazzire. Ma questo non accade nemmeno dopo l’evento che seguì di un paio di settimane il ritorno a Padova, altrimenti non riuscirei a tenere ancor oggi al collo la collana che trovai, anche se da allora non ne scaturiscono più sogni fantastici di realtà tornate seppellite.
Confesso però che non fu semplice superare quella notizia che diede fondamento alle congetture che non avevo mai abbandonato veramente; ma, come ho detto, superai anche questo momento.
Svelai l’ultimo tassello dl mistero una mattina leggendo sbadatamente il Corriere Della Sera a casa mia, in licenza. In un infimo trafiletto relegato nella cronaca si divulgavano gli ultimi sviluppi dello scoppio al deposito munizioni di Spilimbergo, tra cui l’inesplicabile mistero di molti brandelli di corpi tra gli altri semicarbonizzati. Pare che queste membra incomplete non siano parte dei sottufficiali periti nell’esplosione, ma siano molto più vecchie e appartenenti ad individui nati in un periodo antecedente la Prima Guerra Mondiale.

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