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Autunna et sa Rose

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Domanda di rito, presentatevi.
Autunna et sa Rose è nato nel 1994 come progetto musical-teatrale con il preciso intento di fondere i linguaggi comuni di musica e poesia in una forma drammatizzata che permetta di dare compiuta espressione ai convulsi moti emotivi dello spirito. In simbiosi con il primario rapporto musica-letteratura, sono stati inoltre coinvolti altri linguaggi artistici come la cinematografia, le arti figurative e appunto il teatro, quale ideale di "arte totale", summa di tutte le arti. In questa chiave di lettura, la musica è perciò servita come "plasma emozionale" per comunicare il tutto in maniera plurisensoriale. Le forme musicali utilizzate vivono quindi in dipendenza dalla teatralizzazione in certo modo "imposta" dai testi, o, più in generale, dal tema della narrazione. L’idea della teatro-musica non è un qualcosa di tanto strano dal nostro punto di vista, dev’essere infatti la maniera più naturale ed al tempo stesso complessa ed elaborata per esprimere compiutamente le emozioni che ci hanno da sempre formato e che pertanto intendiamo trasmettere come contributo energetico fondamentale dello spirito. Il fruitore viene quindi condotto a passare attraverso una drammatizzazione teatrale che, in forma per nulla snobistica, rappresenta invece il mezzo principe per fare fuoriuscire le proprie ansie, le proprie gioie sepolte e portarne a galla la forza in esse intrinseca e latente. In scena si mette a nudo il proprio cuore, in sostanza.

Il vostro ultimo lavoro è molto particolare, quasi una specie di cover album assemblato in modo strano, ma la definizione è davvero povera... Da dove nasce il progetto?
Quest’ultimo lavoro si presenta piuttosto diverso e ancor più vario al suo interno rispetto ai precedenti concept: si tratta infatti di una collezione di brani di artisti di un recente passato, perlopiù di genere wave-gothic/industrial, ora abilmente “riveduti e corretti” secondo una sensibilità contemporanea ed una chiave di lettura basata su inaspettate riverberazioni letterarie che a nostro avviso le songs originali potrebbero avere avuto fin dalla loro primitiva creazione. Seguendo quindi una sorta di processo di destrutturazione di stampo cubista, come in un quadro di Braque i brani originali sono stati fatti a “pezzettini”, tessere di un puzzle ulteriormente tagliuzzate, contaminate e sbrindellate, ogni volta in base a parametri diversi, per poi essere ricomposti con esiti spesso sconvolgenti. Per questa operazione non è stato quindi mai sufficiente cambiare soltanto il testo dei brani, né tanto meno utilizzare strumenti diversi da quegli adoperati in origine dai loro autori: la partitura è stata infatti sempre stravolta e talvolta solo alcune battute si sono conservate, spesso relative alla parte di strumenti che non eseguivano melodie portanti. Si è inoltre sempre arrivati a decontestualizzare l’opera prelevandone una cellula che poi ha finito per generare soluzioni diverse, magari poi anche “scontrandosi”, in momenti inaspettati, con altre cellule, per dar vita a un groviglio completo e necessariamente complesso. Accanto al concetto strettamente compositivo sopra descritto, è però fondamentale l’insieme di connessioni e citazioni letterarie affidate ai brani scelti, le quali tracciano un percorso spirituale volto a stimolare in noi tutti un’indagine sull’essenza intima della morte, dell’anima e della vita eterna, e che vede ancora in Antonin Artaud, cui il titolo dell’album si riferisce (L’Art et la Mort è il titolo di una sua raccolta di scritti del 1929 da cui abbiamo tratto alcuni testi), il suo profeta sublime. In realtà la molla che mi ha dato personalmente la spinta per mettere in moto tale processo di destrutturazione non è certo stata quella di confrontarmi in qualche modo con i gruppi ascoltati da giovane, intendendo sfogare un mio presunto desiderio di emulazione, o di dovere tributare loro qualcosa di particolare. La destrutturazione è stato soltanto un mezzo, uno strumento formale, se vogliamo, il cui fine era però ben più rivoluzionario di quanto si pensi. Così come il mio interesse non è quello di riproporre, la componente rivoluzionaria vive appunto nell’ironia che si configura come atto di acquisito snaturamento, di voluta perdita dell’identità e quindi dell’identificazione di un oggetto (sonoro), che ne rende la forma ai più appunto “irriconoscibile”. A tal livello anche la sostanza muta, e ne è prova il fatto stesso di avere prelevato scritti di autori letterari ben più anziani, con l’intimo fine di comunicare qualcosa di specifico e di diverso dallo spirito originale dei brani, di solito, oltre che di stabilire un “ponte” tra le epoche, che dia in un certo qual senso l’idea dell’atemporalità dell’Arte. Si potrebbe quasi dire che la scelta di dati brani sia stata una sorta di pretesto per comunicare qualcosa d’altro, che io ho preteso di tirare fuori dalle spire del Tempo, ed anche la scelta degli estratti letterari non è affatto casuale, bensì intende legare idee e afflati di menti illustri e sublimi spiriti del passato distanti tra loro, nel tempo e anche dal punto di vista della formazione culturale. Pertanto poca importanza ha la scelta specifica di ogni singolo autore dei brani, conta anzitutto l’opera, come dissociata in verità dal proprio autore. Una figura che, al mondo d’oggi, ha finito purtroppo per acquisire eccessiva importanza, al punto di generare situazioni paradossali, come quelle riguardanti alcuni musicisti che si sentono più corrisposti nel proporre soltanto brani altrui, specificandone sempre bene l’autore e facendo l’impossibile per assomigliare a questo, in un’assurda ricerca di spersonalizzazione creativa la quale ha come unico fine il riuscire a clonare il successo dell’altro: vedi il dilagante fenomeno delle cover-bands.

Il vostro interesse per un certo tipo di letteratura è innegabile. Nell’ultimo disco avete usato testi di Artaud, Baudelaire e Pasolini, tanto per nominare i più conosciuti al pubblico medio. Cosa rappresentano questi artisti per voi e perchè avete scelto quei brani per il vostro disco?
Beh, con Artaud è una storia lunga… Abbiamo aperto il nostro primo lavoro, Sous la robe bleue, con il brano L’Art et la Mort il cui testo fu tratto dall’omonimo lavoro di Artaud. Il nostro esordio discografico è datato 4 settembre 1996 - per un puro e fortuito caso - centenario della nascita di Antonin Artaud (in pratica la cosa fu da me scoperta solo in seguito...). Se fosse destino non so, certo fu una “rivelazione”, per così dire, che un anno prima avessi recuperato quello scritto che Artaud aveva allegato a margine della raccolta L’Art et la Mort, ed avessi deciso, così, impulsivamente direi, di musicarlo... Che dire a proposito dell’influenza che egli ci ha sempre dato? La prefazione al primo suo libro che lessi cominciava così: “Quando si è letto Artaud, non ci si riprende. I suoi testi sono di quelli, molto rari, che possono indirizzare tutta una vita, influire direttamente o indirettamente sul modo di sentire e di pensare, di regolare un comportamento sovversivo attraverso ogni tipo di sentimento, di pregiudizio e tabù i quali, nella nostra “cultura”, contribuiscono a frenare e pure a fermare uno slancio fondamentale”. Rileggendo queste righe oggi a distanza d’anni capisco al volo una serie di cose. Capisco perché il progetto Autunna et sa Rose ha avuto la forza di continuare nonostante le innumerevoli difficoltà trovate, non soltanto in termini economici, ma pure nel riscontro e nell’interesse vero del pubblico. Artaud non può essere oggi visto né come poeta, né come scrittore, né come attore, né come regista, ma forse come tutte queste cose insieme e forse il contrario di tutte: di certo è stato un uomo che ha cercato di sfuggire a ciascuna di queste definizioni e, forse proprio per questo motivo, ha incontrato la più grande repressione possibile. Tuttavia ha avuto la forza di continuare, e non senza difficoltà e rischi per la vita, tanto che fu internato per dieci anni in un manicomio giacché ritenuto pazzo dalle autorità francesi dell’epoca che giudicavano i suoi scritti “malati”. Credo che donare la propria vita all’arte, per quanto possa oggi sembrare “anacronistico”, sia segno di forza di spirito, e se davvero Autunna et sa Rose fosse nato sotto la “protezione” spirituale di Artaud, spero non si fermerà dinnanzi a nulla e nessuno. Non abbiamo mai accettato di tenere a freno quello slancio fondamentale che ci ha spinto ad operare sacrifici che magari a molte persone parranno pura follia, ma che noi eravamo “obbligati” a compiere in virtù di una necessità quasi rituale (in effetti, è l’istinto del sacrum facere, del fare qualcosa che sia sacro per sé, per la propria vita, che vince ogni freno...); tanto che, ogni qual volta si profilava la prospettiva di un compromesso, potevano sorgere situazioni pericolose, o comunque dissocianti... Ci sono infatti motivi profondi se ogni nostra rappresentazione live deve iniziare con il brano L’Art et la Mort. Un inizio che pare allo stesso tempo una fine, di questo sono cosciente e penso che l’effetto che ha sempre avuto sul pubblico possa essere stato quasi sempre di straniamento: questo, oggi, deve essere per me il teatro della crudeltà... Charles Baudelaire è stata la mia passione fin dai tempi del Liceo, quando studiavo letteratura francese, tanto che negli anni immediatamente successivi iniziai a leggere con fervore molte sue opere, a partire dai magnifici Les fleurs du mal, naturalmente. Credo che iniziai da allora a scrivere poesie proprio sulla spinta dell’ispirazione che mi avevano dato i suoi scritti in quegli anni (tanto che alcune di queste mie cose le scrissi proprio in francese…). Quanto a Pasolini, l’ho sempre ammirato per lo spirito rivoluzionario e nel contempo estremamente erudito e puntuale nelle critiche alla società del suo tempo, un periodo denso di contrasti e lotte sociali che peraltro lo videro pure convinto attivista. Reputo che Pasolini sia stato il più grande intellettuale italiano della seconda metà del secolo appena passato, e che le sue idee avessero una chiarezza e una lucidità tali da renderlo davvero unico nel panorama culturale di quel tempo, e forse proprio per questo scomodo. Molto spesso anch’io mi sono sentito, mi sento ancora ai margini della società, come un reietto di questa, la società dell’apparenza a tutti i costi. Distanza incolmabile tra l’essere e l’apparire…

Allo stesso modo, il bagaglio dal quale avete attinto le canzoni da interpretare è moto variegato. Si passa dai Virgin Prunes ai Bauhaus agli Einstürzende Neubauten con nonchalance... Come mai? Cosa vi hanno dato o vi danno questi artisti? Perchè queste scelte?
Sono stati gruppi che ho ascoltato da giovane, specie nella seconda metà degli anni ’80: alcuni di essi ho amato più di altri, magari a seconda dei periodi, naturalmente. Credo che questa scelta così variegata negli stili porti in sintesi ad una sorta di equilibrio che sorge dall’intima necessità di offrire e rappresentare tutte le possibili sfaccettature della dualità Arte-Morte, come una scultura che, colpita dalla luce, possa mostrare punti di vista e impressioni diversificate a seconda dell’angolazione dalla quale è osservata. La scelta è stata condizionata generalmente dal fatto di avere una precisa conoscenza dei brani utilizzati, più che dal fatto di apprezzarli e di averli apprezzati, in verità. Ribadisco che l’interesse primario è stato rivolto alle opere più che ai loro autori. Pertanto credo non si possa parlare di “omaggio, strano, singolare, ma pur sempre un omaggio” con tanta leggerezza. Ancora mi interrogo se il parto di cui stiamo scrivendo e discutendo si possa in qualche modo avvicinare a ciò che generalmente si intende “un omaggio”. Un omaggio ha di solito un fine preciso, nel senso che si deve in tal caso un tributo a qualcuno che ci ha preceduti, e si pensa di ricompensarlo in qualche maniera (anche se oggi più che mai i “tributi”, le covers insomma, spesso, troppo spesso, si configurano come squallidi stratagemmi commerciali…). Certo la conoscenza diretta di Tuxedomoon e Ataraxia potrebbe motivare la scelta di indirizzarsi verso le loro composizioni. Va da sé che la “coverizzazione” operata, come si è detto, quasi nulla ha a che vedere con quanto fatto da altri. Del resto, la stessa operazione di destrutturazione già operata nel 1999, all’inizio della stesura dell’opera di teatromusica Sturm, con Some Guys dei Tuxedomoon è antecedente alla conoscenza avuta appunto un anno e mezzo dopo con lo stesso Steven Brown. Anche in quel caso contò molto di più il brano stesso più che il fatto di avere utilizzato un pezzo di una band peraltro da me molto amata illis temporibus; inoltre una serie di associazioni mentali e visionarie mi condussero magicamente e irrimediabilmente verso quella musica, non ultima delle quali la scena dell’angelo che vola tra le finestre del condominio all’inizio del mio film preferito – direi davvero una “pietra miliare” nella mia crescita culturale, spirituale, un “punto fisso” nella mia vita – Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders (una radio in una stanza in cui l’angelo entra diffonde proprio Some Guys). Potrei dire che proprio quello spirito che mi indusse a destrutturare a quel modo Some Guys nello Sturm fu la “miccia” che fece esplodere in me l’idea di potere portare a termine un progetto come L’Art et la Mort, ossia di approfondire quell’esperimento, sempre a partire da stimoli concettuali legati a dati brani, o che da essi in qualche misura potevano spandersi. Naturale allora, quasi automatico, direi, riferirsi ancora ai Tuxedomoon. Per Ataraxia il discorso è leggermente diverso, ma sostanzialmente simile, e ne scrivo nella risposta seguente. Insomma, ciò che mi interessava erano QUEI brani, ché se avessi voluto citare i miei (presunti) maestri, o comunque i gruppi che più ho amato in vita mia, non avrei allora dovuto assolutamente omettere Joy Division o In The Nursery; di più, Laibach non sono stati mai un gruppo che ho ascoltato, così come mi sono poco interessato in fondo ai Virgin Prunes…

Nell’album c'è anche una nuova versione di Canzona degli Ataraxia, band con la quale avete condiviso anche un cd recentemente...
Conosco Francesca, Vittorio e Giovanni dalla fine del 1993. Fin da allora ho avuto modo di seguire Ataraxia in occasione di quasi tutti i loro concerti in Italia del nord, e talvolta pure all’estero. Naturalmente la nostra amicizia non s’è limitata a tale regolare frequentazione durante i concerti, anzi, ci siamo sempre ritrovati costantemente, spesso per nessun motivo particolare. Capisci quindi che fare un concerto o un disco insieme sarebbe stato prima o poi un evento più che naturale… Sicuramente la loro musica ha influenzato la mia crescita artistica e anche spirituale, ad essa sono legati molti momenti fondamentali della mia vita: Canzona non a caso è stato da me già citato nella seconda scena dell’opera Sturm, da cui il nuovo titolo assegnatogli, Lune et arcades, con riferimento alla scena in cui il personaggio Lybra scende dalla luna di ottobre. Pertanto è da questa citazione “visionaria” che è nata l’idea di utilizzare l’originale degli amici modenesi, fino all’occasione del concerto acustico del 31 maggio 2003 nella chiesa di S. Michele a Rovigo, dal quale poi si pervenne al progetto per la realizzazione di Odos eis Ouranon (inizialmente concepito come doppio DVD da proporre ad etichette eventualmente interessate). Delle traversie che hanno causato il ritardo di 1 anno e 7 mesi dalla data inizialmente prevista in seguito all’accordo con la portoghese Equilibrium music, rispetto all’effettiva alla data di uscita (luglio 2005) preferirei non parlare in questa sede; mi preme soltanto rammentare che c’è stata gente la quale ha fatto notevoli sacrifici per realizzare questa cosa cui tutti noi tenevamo molto, mentre c’è stato chi ha deciso di sfruttare la situazione pensando unicamente al proprio tornaconto, oppure rivendicando diritti assurdi e mostrando un’insensibilità gretta e bastarda, figlia di una profonda ignoranza. Ma l’insensibilità è stata purtroppo una caratteristica più diffusa, e mi riferisco a tanti di quelli che si sono trovati tra le mani il promo di Odos eis Ouranon e hanno dovuto recensirlo. Lo “sport” di incensare metà progetto per poi bocciare o storcere decisamente il naso di fronte all’altra metà è andato per la maggiore: per carità, de gustibus, d’accordo, ma fino ad un certo punto, perché osservazioni ignoranti e pure cattive non sono mancate, addirittura frasi che hanno dimostrato vera incompetenza in ambito musicale di base, idiozie totali!! Che fare quindi di fronte a tale insensibilità, per non dire di peggio? L’unica risposta sarebbe stata potere spiegare, attraverso interviste, a questo mondo cialtrone la natura intima del nostro messaggio. Dico “sarebbe stata”, perché non c’è quasi stato modo di replicare, per così dire, alle sconcerie. A questo punto della storia questa denuncia è più che opportuna, e colpisce più parti coinvolte, colpisce in egual modo coloro che hanno preferito non capire, perché avevano altri interessi da seguire, ché tanto era troppo faticoso e forse a tal punto inutile offrire ad una data utenza una chiave di lettura davvero completa ed appropriata, ché ciò che conta sono i guadagni e la “gloria” diretta, mentre dell’arte chi se ne fotte!!! Troppa fatica!

La scelta grafica attuata nei vostri ultimi lavori è eccellente... Da dove traete le ispirazioni? Chi se ne occupa?
Grazie. Ho sempre curato personalmente la grafica dei lavori prodotti, fino al 2002 con l’aiuto tecnico del nostro grafico Felix, oggi autonomamente. L’ispirazione è data dal contesto concettuale dei singoli brani. Ogni pagina del booklet è allora fondamentale per entrare nella giusta atmosfera di ciascun brano, offrendo una corrispondenza figurativa, più o meno diretta, utile per esplorare al meglio le sfumature che parole e suono vogliono esprimere: ecco che allora il letto di tortura di Antonin Artaud viene immaginato mentre ai nostri occhi appare la spettrale visione delle manopole dell’elettroshock, ideale commento alle già straziante coro di voci interiori che occupano dispoticamente il cervello del geniale artista francese.

Siete sulla scena da più di dieci anni... Cosa vi spinge a continuare in maniera così seria nonostante (credo) la musica non vi dia letteralmente da mangiare... sacrifici... delusioni... Come fare a superarle e dove traete soddisfazione?
La serietà di cui tu scrivi a nostro riguardo deriva direttamente dalla convinzione in ciò che uno fa e del perché lo fa: ritorno perciò sul concetto del sacrum facere (vedi risposta alla domanda n°3) e sullo slancio fondamentale che è stato indubbiamente la molla che ci ha spinto in quella direzione, irta e scomoda, sconveniente quasi, che abbiamo deciso con forza di intraprendere oltre dieci anni fa, perché ci sentivamo dentro un “magone” che premeva, giorno dopo giorno, sempre più violentemente, per uscire. Ed in effetti le frustrazioni ci sono state vicine spesso, abbiamo vissuto momenti difficili a dir poco, direi di vera e propria disperazione, perché più volte, specie i primi anni, ci siamo illusi, dopo i primi insperati successi, che la strada potesse essere in discesa… Siamo pure arrivati in pochi anni ad un contratto importante, salvo poi subire il danno, morale e non solo, di dovere vederlo svanire dietro il fallimento della label dell’area germanica con cui avevamo firmato. Ci fu un periodo in cui Autunna et sa Rose fu davvero sul punto di morte, tanto la depressione mi aveva preso e volevo mollare tutto. Poi capii, realizzai che c’era un sacrifico da compiere, anche nei confronti di una persona cara che da poco se n’era andata e a cui il nuovo lavoro Né l'être... éternel era dedicato. Che dopotutto era giusto rischiare, che la fatica spesa nel produrre quel disco poteva essere ripagata solo esponendosi ancora, e che c’erano persone, in particolar modo Simone (violoncello), con le quali si poteva intraprendere un nuovo ciclo. Da allora, nonostante le difficoltà continuarono e le illusioni si susseguirono (anche la grande occasione dello Sturm, il lavoro che poteva aprirci vie fin ad allora ostinatamente sbarrate grazie al fatale incontro con Steven Brown, fu male sfruttata a causa di una pessima gestione della promozione), non si è più raggiunto quel grado di depressione che ti fa venir voglia di mandare tutto all’aria. Forse ora sono riuscito a formarmi una “corazza”, sono più disilluso, il che non so se è un bene. Ho probabilmente maturato una certa forza d’animo, questo anche grazie all’aiuto, materiale e spirituale, di alcune persone che ci sono vicine, e che, nonostante mille difficoltà, operano e combattono perché il nostro progetto vada avanti, alla facciaccia di chi ritiene che sia “invendibile” o “troppo difficile”. La verità è che per noi la musica deve essere espressione di cultura, mentre oggi i discografici più influenti cercano continuamente nella musica un introito facile, e pure i grandi organizzatori di eventi puntano sui “nomi grossi”, rifiutandosi di ricercare nuove realtà in grado di apportare una crescita culturale nell’ambiente musicale. E’ evidente che motivi per sentirsi frustrati ve ne sono parecchi… Ma siamo pronti a resistere con il coltello tra i denti… E del resto le soddisfazioni arrivano quando trovi persone in grado di comprendere il tuo messaggio, anche solo di approfondire la conoscenza, oppure di darti modo di ampliare la diffusione delle tue idee, quindi anche di pubblicare una tua intervista…

Mi piace pensare ad Autunna Et Sa Rose come ad un progetto a 360 gradi, che non si limita dunque solo al lato puramente musicale dell'arte, ma ne abbraccia anche le sfaccettature visive, come teatro, cinema o altro...
Come già scritto, Autunna et sa Rose non è un progetto musicale in senso stretto. La letteratura, il cinema, il teatro (quasi più come “contenitore” e punto di arrivo, che come pozzo dal quale trarre specifici riferimenti) sono sempre stati per noi fonti di ispirazione determinanti per la nostra ricerca. Già dagli esordi ci siamo caratterizzati in tal senso in maniera netta, scegliendo di presentarci con un lavoro che in copertina aveva un fotogramma – carico di fondamentali allusioni simboliche – tratto dal film La doppia vita di Veronica, del compianto regista polacco Kieslowski, già autore della famosa trilogia Trois couleurs (Film blu, bianco e rosso associati ai tre colori della bandiera della Francia, suo paese d’adozione). Cinema e teatro s’intersecano e a volte s’identificano, non fosse che il cinema è da sempre ritenuto più “artificioso”, in quanto arte costruita, che non ha di solito il dono della contemporaneità espressiva. In entrambe le forme d’arte – e perché no, anche nella musica! - la poesia come mezzo espressivo può e dovrebbe ancor oggi giocare un ruolo determinante, intesa sia nella sua forma tipicamente letteraria, che nella raffigurazione visiva di scene, in termini della fotografia o dell’uso strategico delle immagini in generale. Per questo motivo e su questa linea artistica la videoproduzione è un campo che stiamo cominciando a coltivare, per ora con una certa cautela, presto si spera con più convinzione. In ogni caso, reputo che proprio nel teatro si crei la sintesi vera di tutte le forme d’arte, in un’ideale Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale) sullo stile wagneriano, se vogliamo, o meglio ancora sulla scia spirituale delle grandi sinfonie di Mahler, inneggianti al potere delle forze della Natura.

Mi sembra che il vostro modo di rileggere i brani sia stato quantomeno particolare. Ad un primo ascolto infatti sono riconoscibilissimi, eppure non sono prettamente delle "copie", anzi...
So che la più parte della gente ha reagito in maniera opposta a te! Spesso hanno avuto bisogno di più ascolti per identificare alcune linee guida dei vari brani, riuscendo gradualmente a “decifrare” quel genere di scomposizione della forma, così come già magari osservato in certi primi Duchamp. Destrutturazione quindi come rappresentazione “perversa” di una realtà multidimensionale, che, oggi come non mai, non si compone affatto di figure puramente visibili, o, nella fattispecie della musica, chiaramente udibili.

Siete una band che cura non poco l'aspetto grafico dei lavori, ma a differenza di molte altre formazioni, ciò che davvero spicca è il contenuto, musicale e lirico. Quanto secondo voi è labile il confine tra essere ed apparire e quanto gioca questo fattore sull'arte odierna, che sia visiva, uditiva od altro?
Distanza incolmabile tra l’essere e l’apparire… Il più è accorgersene. Viviamo nella società dell’apparenza ad ogni costo, molte delle cose che ci circondano - e che ci bombardano attraverso messaggi commerciali – sono costruite con una rassicurante facciata che non possa né debba inquietare i (troppo spesso ignari) consumatori… Distanza incolmabile tra l’essere e l’apparire…: uno dei capisaldi della nostra poetica che abbiamo sempre segnalato come principale piaga di questo mondo di “uomini perfetti” in cui le emozioni vengono mascherate per rifuggire miseramente nei meccanismi ”plasticosi” dell’apparenza a tutti i costi. Credo che la scelta di proporre un lavoro come L’Art et la Mort, contrapponendone la natura ai prodotti della squallida logica speculativa delle cover-bands, fucine di una vera e propria spersonalizzazione creativa, la dice lunga su quanto oggi sia importante apparire per avere successo, al punto clonare il successo di quel dato autore cui molti pseudoartisti tendono spasmodicamente ad assomigliare nella speranza di essere finalmente ascoltati. La denuncia, la provocazione de L’Art et la Mort toccano vari livelli e varie categorie; l’ironia ne è il tramite raffinato, quel gusto che si prova ogniqualvolta ci si cimenta nel tentativo di “andare oltre” (la forma). Bisogna sempre sapere discernere, in sostanza, tra arte e artificio.

Perdonatemi ma non posso non chiedervi un parere sull'arte contemporanea. Girando per alcune mostre, comprese le tanto blasonate biennali di Venezia, mi sono spesso imbattuto negli ultimi anni in veri e propri... nulla...
Nei secoli passati l’arte figurativa ha sempre avuto uno stretto legame strutturale con l’artigianato: l’artista era necessariamente abile pittore o scultore, esperto cioè in raffinate tecniche esecutive, le quali, a seconda degli stili, gli permettevano di realizzare opere il cui linguaggio era comunque basato su un concetto di tipo figurativo. Il Novecento ha portato con sé innovazioni di ogni genere, non soltanto nell’arte, tanto che l’opera d’arte figurativa – si direbbe un paradosso! – è divenuta sempre meno figurativa… E’ mutato in realtà il significato profondo di arte, la sua funzione a livello sociale. Dal Dada all’Astrattismo in fondo il passo è stato breve, nel senso che ha col tempo prevalso l’arte della denuncia sociale, della provocazione, condizioni che nei loro fondamenti rivoluzionari hanno generato naturalmente anche una graduale e crescente mutazione del ruolo e delle competenze dell’artista. Oggi ci troviamo di fronte ad artisti che non dipingono, né veramente scolpiscono, perché, pur avendo magari anche le necessarie competenze, non sono più interessati a sfruttarle in una maniera rigidamente classica o convenzionale. E’ venuto meno il secolare binomio arte-artigianato, in realtà tante opere sono create assemblando magari vari oggetti secondo disposizioni particolari, oppure per deformazione di materiali un tempo inesistenti, come PVC, polistirolo o altri composti chimici; sono mutate pure le tecniche in relazione all’utilizzo di nuovi materiali, si sfruttano tecnologie multimediali, video anzitutto, ma non solo, anche impiego studiato di luci, di suoni registrati, magari pilotabili dal fruitore stesso una volta condotto nello spazio espositivo, e chi più ne ha più ne metta… E’ necessariamente l’arte del nostro tempo, siamo nell’era della tecnologia, e l’arte riflette le contraddizioni della vita sociale. Nei secoli passati gli artisti non avevano a disposizione i materiali e le tecnologie che abbiamo noi oggi, basti ricordare che la pittura nacque per potere ritrarre il mondo circostante, come più avanti riuscì a fare, in maniera più tecnologicamente avanzata, la fotografia: da allora in poi il senso della creazione di un dipinto dovette inevitabilmente mutare. E’ mutato soprattutto il linguaggio associato all’opera d’arte. C’è sempre più l’esigenza di una ricerca concettuale, spesso al limite di un’essenzialità espressiva o di un minimalismo figurativo, che diventa poi arduo interpretare. Frequento la Biennale di Venezia dal 1993, e devo dire che anch’io non sempre ho trovato cose interessanti. Conservo tuttavia ricordi indelebili e unici in relazione ad opere che evidentemente mi hanno lasciato qualcosa anche a distanza di tempo. Dipende. Sì, perché capita spesso di inoltrarsi in taluni padiglioni internazionali che paiono davvero un’accozzaglia di inanità o di vere porcherie: ma credo sia proprio la filosofia di questa rassegna che, dando spazio a tutti gli stati del mondo, non ha il potere di operare una selezione minuziosa dei lavori presentati, che magari sono particolarmente “spinti” da qualche forza di tipo politico all’interno di quella o quell’altra nazione. In ogni caso, quando si assiste ad una manifestazione (sì, perché bisogna ricordare che tale è l’evento, prima di tutto che una mostra) come la Biennale bisogna tenere conto che si è condotti a muoversi tra linguaggi espressivi diversi, peraltro provenienti da paesi del mondo diversi, con differenti problematiche sociali, e che la cosa può divenire faticosa, può creare in noi confusione. Comunque, è normale, c’è tanta roba, non tutto può valere il prezzo del biglietto… Per quello che mi riguarda, disprezzo in generale i cosiddetti artisti che si divertono a squartare carcasse di animali, proponendoci “opere d’arte” costituite da tali resti di organi morti immersi in formaldeide. E, come accade per la musica, nel quale ambito la merda sonora vince sempre, stranamente ancora una volta ci tocca vedere che questi qua sono spesso pure assai quotati… Bleah!

Progetti futuri?
In teoria, tanti, troppi. Boh. Un nuovo disco? Dipende. Un libro? Boh (Chi lo pubblica?). Un… Chi vivrà, vedrà.

Grazie per la disponibilità, le ultime parole sono per voi.
“Lei non ha capito niente perché è un uomo medio. Un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista”. Questa frase fu pronunciata da Pier Paolo Pasolini in risposta all’ignobile grettezza di un giornalista. Angelo Bergamini dice che viviamo in un paese occupato, di un’”occupazione antica”, capitalistica e massonica, mafiosa in una parola. Il bombardamento mediatico-tecnologico ad oltranza ha creato frotte di giovani e meno giovani rincoglioniti, quanto basta per non rendersi conto di come le cose stanno andando a rotoli. E’ un vero e proprio svilimento della cultura quello al quale ci tocca assistere, spesso tarlati da un deprimente senso di impotenza. Autunna et sa Rose mira chiaramente ad una reazione di almeno una “frangia” di persone, le quali non si accontentino più delle loro presunte sicurezze, basate sulla logica del supermarket e dei “consigli” televisivi, ma decidano una volta per tutte di ricercare, di non fermarsi alle comode apparenze della quotidianità, accettando di mettersi in discussione e di affrontare percorsi anche accidentati, pur di scoprire. Ho di recente conosciuto un ottimo giovane regista indipendente italiano, si chiama Emiliano Cribari, il quale ha riportato nel suo ultimo film la citazione, presa da un giornale, secondo cui l’attenzione media di un uomo oggi si aggirerebbe sui 3 secondi. Non può non far pensare questo dato, pienamente attendibile o meno che sia, di sicuro c’è una forte, preoccupante tendenza alle emozioni da supermercato: la gente, la massa pare non sia più in grado di avere un giusto approccio all’atteggiamento riflessivo, si rifiuta quasi di pensare, arriva a casa la sera – come dice provocatoriamente Emiliano – e non ha voglia di vedere qualcosa di complicato, di sentire la poesia in un film, è stressata, vuole rilassarsi e non scervellarsi di fronte ad una pellicola in cui c’è troppo da capire… Alla luce di tutto ciò, mi viene da vomitare a pensare a tutti coloro che ci hanno etichettati come “snob”, “(troppo) intellettuali”, eccetera. Il fatto che a noi interessi la cultura, la tanto vituperata in questo Paese, ha a che fare primariamente con l’insopprimibile necessità di vivere una vita in qualche modo piena. Vogliamo vivere emozioni vere e non precotte o stereotipate perché così ci hanno consigliato alla televisione, o chi cazzo ci ha detto che così va bene, è figo, è trendy. Non vedo perché il fatto di ascoltare un certo genere musicale debba implicare che non si possa anche ricercare qualche altro ascolto differente, leggere un libro “impegnato”, oppure che sia obbligatorio vestire in una certa maniera. E’ ovvio che se si è figli di tale ristrettezza mentale, si è pure padroni di una profonda vena conformistica, come diceva Pasolini, si è davvero “uomini medi”: e allora si è pronti ad etichettare come “diversi” coloro che si sbattono per fornire dei cambiamenti, dei punti di vista differenti, e che quindi non si accontentano di proporre minestre riscaldate, non lo possono fare, in virtù di un “codice morale” che impone loro di non rifugiarsi mai in banalità. Ecco perché l’opera di Autunna et sa Rose è figlia di una necessaria complessità: visto e considerato che il nostro obiettivo precipuo è indagare il mondo, i sentimenti, le passioni, i tumulti dell’animo umano, non possiamo nascondere le intime complessità che li caratterizzano. In questa società da fast-food emotivo e quindi culturale la complessità è da molti aborrita come fosse uno scomodo partner, come un bidone dell’immondizia che nessuno vorrebbe svuotare. Sentirsi dare del “complesso” è da considerarsi un giudizio negativo, ti etichettano subito come “complicato”, come se le due definizioni fossero davvero equivalenti. La complessità è invece presente nella vita quotidiana di ciascuno di noi, sotto varie forme e manifestazioni, negli elettrodomestici o negli apparecchi tecnologici che usiamo, nelle vicende politiche di cui siamo informati, nei sentimenti che proviamo e di cui siamo spesso vittime… Perché allora dovremmo vederla così ostile? Non si tratta di “complicare” le cose, ossia di vederle o renderle più complesse di quelle che effettivamente sono: bisogna esser consci della complessità e riuscire a interpretarla, solo così saremo in grado di vivere il nostro tempo in maniera cosciente e piena, non da larve, ma da uomini responsabili. Essa non è che il risultato di tante cose, concetti, idee, messe insieme: creare oggetti complessi è nella natura dell’uomo e del mondo, del Creatore che ci ha lasciati su questa Terra, dentro all’Universo che ci contiene. Per cui, all’ascoltatore che bolla il nostro lavoro come “complicato”, frammentario, l’accusa di essere “troppo simbolico”, ritiene che richieda al fruitore troppa pazienza, ché tanto la gente vuole qualcosa di semplice e non di “incomprensibile”, dico che se sceglie questa linea rimanendo così in superficie alle cose, non avrà capito niente perché è un “uomo medio”… Tanta stampa, in Italia e all’estero, in rete o meno, è qua e là popolata da una discreta quantità di bizzarri cialtroni, a volte pure spinti non si sa bene da quale mania di grandezza. Si leggono recensioni redatte con tutta probabilità ascoltando dischi mentre si è intenti a pranzare, a fare la doccia, o impegnati in non si sa in quale altra amena occupazione. A volte pare addirittura che il “giornalista” in questione sia stato costretto a recensire un dato disco, quando poi si viene a sapere che manco viene pagato per questo…
Purtroppo mi tocca riscontrare che da anni dobbiamo lottare contro un immobilismo dilagante, associato allo “scetticismo”, se così si può definire, di una grandissima parte della stampa, italiana e non. Le logiche di mercato vincono spesso anche in ambiti giornalistici che amano professarsi “indipendenti”, mentre fanno il gioco delle grandi labels o dei distributori più influenti. Non posso perciò fare a meno di denunciare l’indifferenza - da anni subita - nei confronti di qualcuno, come io credo di essere, che quanto meno ha davvero qualcosa da dire, questo al di là dell’eventuale tono di protesta che mi trovo a dover tenere. Se tanti giornalisti italiani e, purtroppo, anche stranieri hanno sempre voluto ignorarmi in questi lunghi anni, non posso non pensare che la cosa sia stata dovuta alla loro mentalità ristretta e obsoleta (da “uomo medio”, insomma…!), quando si trattava di proporre qualcosa di “nuovo” che non fossero personaggi con idee trite e ritrite. Eh sì, perché era più facile, o forse vantaggioso (?) andare in cerca solo di chi “odorava“ già del gruppo X, cioè di chi era bravo ad imitare gli altri... Indipendenti?!? O magari figli viziati di quello stesso immobilismo culturale e sociale di chi ha il potere del mercato dalla sua parte ma non ha le palle per rischiare, pur di cercare proposte stimolanti… E certo, sennò mica ti saresti sentito dire che il tuo genere è “troppo fuori”…

Max1334

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